Il decreto legge prevede la nascita di enti a capitale misto, con un tetto del 30% per la partecipazione statale, oppure l’assegnazione dell’appalto tramite gara pubblica ai privati. L’assegnazione per gara dovrebbe essere la normalità: straordinaria invece la procedura che concede direttamente ad una società privata la gestione delle acque, previo parere vincolante dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Queste le misure in questione: ma sono un bene o un male per i consumatori?
La teoria delle privatizzazioni è convinta di sì. Affidare ai privati gli appalti pubblici consentirebbe di ridurre i costi per lo Stato, di generare un circolo virtuoso di concorrenza e di incrementare gli investimenti per migliorare il servizio. Tutto a vantaggio del bene collettivo. Ma tra teoria e pratica, mai come in questo caso, c’è di mezzo il mare. Di acqua.
Una società privata, infatti, deve sostenere massicci costi iniziali in termini di strutture, personale e tecnologia. Deve assicurare un servizio capillare e costante, affrontare la morosità cronica di alcune fasce di popolazione, difendersi dagli altri concorrenti in sede di gara d’appalto proponendo progetti ambiziosi di crescita. Per farlo, una società privata non può chiedere fondi allo Stato: deve aumentare le tariffe. La realtà lo dimostra già adesso. Nel Lazio, il gruppo privato Acqua Latina ha aumentato le tariffe del 300% rispetto al passato. Lo stesso è successo dove opera la multinazionale francese Veolia, che controlla il 47% della società calabrese per la distribuzione dell’acqua (la Sorical). È importante notare che anche società a capitale misto tendono ad aumentare il prezzo di vendita dell’acqua: il pareggio di bilancio è infatti priorità sia della componente privata che di quella statale degli amministratori, e lo Stato finirebbe per accettare tariffe più alte in cambio di progetti più altisonanti e ambiziosi.
Ma quanto durerebbero questi prezzi maggiorati? Secondo gli analisti “pro privato”, nel lungo periodo gli investimenti “naturali” del settore profit ripagano in termini di efficienza, e i prezzi tornano a scendere grazie alla concorrenza. Ma anche su questo, ci sono forti dubbi. Perché, infatti, una società privata, che ha costruito una rete propria o adattato quella esistente alle proprie strutture, dovrebbe abbassare le tariffe? Il consumo di acqua è uno dei meno flessibili nel tempo. I volumi acquistati non crescono al diminuire del prezzo, né viceversa. Quindi, mantenere alte le tariffe costituisce un guadagno netto. La concorrenza tra società diverse, poi, non avverrebbe sul campo del prezzo dell’acqua venduta, ma sul controllo societario dell’impresa già attiva: quel che vedremmo, quindi, non è Veolia che concorre con Acqua Latina abbassando i prezzi, ma Veolia che cerca di comprare Acqua Latina in borsa. Il vincitore della lotta in borsa, una volta in sella, è tentato di mantenere le stesse politiche tariffarie per sanare i costi della scalata. Per il consumatore, tutto resta come prima.
Esiste poi la possibilità, per niente remota, che le società private non investano in nuove reti, ma si limitino ad appoggiarsi alla rete pubblica esistente (e datata), preferendo concentrarsi sul marketing del proprio nome. È una storia già vista nella telefonia fissa: per tutte le località non raggiunte dalla fibra ottica, Fastweb sfrutta la vecchia rete Sip, mantenuta in vita dallo stesso canone che la società Fastweb non fa pagare.
È difficile dire se il Dl Ronchi aumenterà o ridurrà le inefficienze del sistema idrico italiano. Tutto dipenderà da quanto saranno trasparenti le gare di appalto, dalla serietà degli amministratori e dall’attenzione dell’Autority pubblica. Di sicuro, però, aumenteranno i costi per i consumatori e il potere delle società erogatrici: un potere che la nuova class action, indebolita e infiacchita dall’attuale governo, non può contrastare.
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