Acqua privata - di Dario Guidi



Acqua privata
Con la legge Ronchi cambierà la gestione delle reti idriche: gare d'appalto obbligatorie e meno spazio al pubblico. Ma i dubbi sulla strada scelta sono tanti
di Dario Guidi

In Italia si va verso verso una gestione di acquedotti e reti idriche affidata a privati o comunque a soggetti nei quali, nella migliore delle ipotesi, il pubblico ha una quota sempre più ridotta. Il cosiddetto decreto Ronchi è legge da fine novembre 2010.
E nonostante le tante contestazioni e minacce di "guerra" (dai ricorsi per incostituzionalità annunciati dalle Regioni Piemonte, Emilia Romagna, Puglia, Marche e Basilicata ai pronunciamenti contrari di decine e decine di enti locali, dalle proteste di enti, associazioni e gruppi di cittadini sino alla annunciata raccolta di firme per indire un referendum abrogativo), con quello per ora ci sono da fare i conti.
Il fondato sospetto è che, magari assopiti dal quotidiano e poco appassionante dibattito politico, tanti italiani non si siano resi conto di un cambiamento in arrivo che riguarda un bene fondamentale per tutto il pianeta, ma riguarda anche la loro vita di tutti i giorni e il loro portafoglio.
Parliamo di acqua infatti. Sì, proprio di quella cosa che ci pare naturale veder uscire dal rubinetto (anche se in Italia non è così per tutti), che siamo abituati a pagar poco (rispetto agli altri paesi europei) forse anche perché giustamente la consideriamo un diritto, una cosa che c’è e ci deve essere. Punto e a capo. Ma dietro a questa percezione diffusa, stanno anche tanti problemi. E tanti soldi. Basti pensare che le famiglie italiane spendono quasi 6 miliardi di euro l’anno in bollette con ricavi (per i gestori) superiori ai 2 miliardi e mezzo. Ma ci sono anche i problemi di gestione e manutenzione di una rete lunga 327 mila chilometri e per nulla efficiente, visto che secondo i dati Istat del 2005 ben il 28,5% dell’acqua va perduto a causa di buchi e falle. E da allora ad oggi si stima che le perdite siano arrivate al 37%. Perdite che oscillano tra il 50% della Puglia e il 14% di Bolzano. Fatto sta che per rendere più efficiente questa rete ci sarebbero da investire decine di miliardi di euro.

Gestioni solo dopo una gara - Una partita decisamente complessa dunque, nella quale, oltre al dato di principio (se cioè la gestione dell’acqua possa diventare una merce sottoposta alla sola legge del profitto), ci sono da vedere tanti complicati aspetti legati alla gestione e al miglioramento di questo settore. Facciamo dunque un passo indietro per vedere cosa stabilisce il decreto Ronchi. In sostanza la gestione dell’acqua deve essere affidata solo con gare aperte a tutti. Si vuole cioè promuovere la concorrenza. Così al 31 dicembre 2010 cesseranno tutti gli affidamenti che non sono frutto di una gara. La scadenza può slittare al 31 dicembre 2011 se, nel mentre, gli enti gestori cedono a privati almeno il 40%. Per gli affidamenti a società quotate in Borsa (è il caso di molte ex municipalizzate come Acea, Hera o Iride), si va alla scadenza naturale del contratto, ma solo se la quota pubblica scende sotto al 30% entro fine 2015.
Dunque gestione privata e privatizzata, anche se la legge, in via di principio, ribadisce "l’esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche per quanto riguarda la qualità e il prezzo del servizio". Un passaggio duramente contestato da Paolo Carsetti, segretario nazionale del Forum italiano dei movimenti per l’acqua: "Siamo di fronte alla sostanziale e definitiva privatizzazione dell’acqua potabile. Parliamo di definitiva privatizzazione perché si tratta di un processo avviato da anni". Una visione condivisa da Rosario Trefiletti e Elio Lannutti, presidenti rispettivamente di Federconsumatori e Adusbef (associazioni che si stanno mobilitando per promuovere il referendum abrogativo): "Chi capta l’acqua, la distribuisce e la vende e ne incassa i proventi ne è di fatto il padrone".
Oltre al principio, gli oppositori del decreto Ronchi contestano anche che la gestione privata porti benefici ed efficienza: "Negli ultimi 10 anni - spiega Carsetti -, quando con la legge Galli si è iniziata l’apertura ai privati, c’è stato un aumento delle tariffe del 61% e una contemporanea diminuzione degli investimenti nella manutenzione della rete: da 2 miliardi di euro l’anno prima del ’94 a 700 milioni nel periodo successivo". Si cita poi il caso di Arezzo dove la gestione privata dell’acqua ha portato ad aumenti di prezzo esorbitanti. Il tutto considerando che in Italia (specie al sud) il 30% della popolazione ha un approvvigionamento idrico discontinuo e insufficiente, che ci sono ancora 9 milioni di persone senza fogne e 20 milioni senza depuratori.

La gestione attuale -
Spiegare la situazione attuale della gestione dell’acqua non è semplice. La citata legge Galli (risalente al 1994) ha istituito 92 Ato (Ambiti territoriali ottimali) cui spetta l’affidamento del servizio. A metà 2009, risultavano effettuati affidamenti di gestione del servizio in 68 Ato. In 31 casi si trattava di affidamenti cosiddetti in house, cioè a società interamente pubbliche, in altri 13 l’affidamento è a società quotate e in altri 12 a società miste pubblico-privato. Ben 23 Ato non hanno affidato il servizio. A ciò è da aggiungere che comunque in un terzo del paese funzionano ancora gestioni "in economia" da parte degli enti locali, con tariffe bloccate (7 anni fa dal Cipe) che non coprono neppure i costi.
Se da un lato si metterà dunque in movimento un enorme meccanismo legato alle gare d’appalto e alla ridefinizione degli assetti societari per rientrare nei termini stabiliti dalla legge, dall’altra c’è da tener presente che a completare il quadro manca un tassello fondamentale e cioè quello del soggetto che vigilerà sul settore e dovrà fissare le tariffe. Al momento in cui scriviamo il governo non ha ancora deciso se sarà una Autority autonoma o qualcos’altro. Ma il nodo centrale è di avere un soggetto forte e autorevole che davvero verifichi e garantisca il rispetto delle regole e che agli impegni assunti seguano i fatti. Quello delle tariffe si presenta infatti come uno dei nodi decisivi. Oggi in Italia, nonostante gli aumenti degli ultimi anni, abbiamo tariffe (che pur essendo diversissime tra le diverse città) sono tra le più basse d’Europa. E tutti mettono nel conto che con la legge Ronchi ulteriori impennate siano inevitabili (le associazioni di consumatori stimano aumenti tra il 30 e il 40%). Ma quali sono le garanzie che ciò si traduca in investimenti nella rete e quindi in una maggiore efficienza? Roberto Bazzano, presidente di Federutility, l’associazione che unisce gran parte dei gestori di acquedotti, lo ha detto chiaramente: "Se non si aumentano le tariffe non ci possono essere investimenti da parte dei privati. Noi chiediamo un’Autority che possa concedere deroghe ai limiti previsti sugli aumenti tariffari a fronte di investimenti sulla rete". Altrimenti si resta alla situazione attuale, dove gli investimenti vengono sì programmati (la stima è che servano 60 miliardi), ma poi non vengono fatti. E miliardi di euro in acqua vengono sprecati.
La scommessa sul privato, che anima la legge Ronchi, suscita dubbi e timori, anche perché la logica di profitto che è propria di queste società potrebbe indurle a non operare per ridurre i consumi; così come non si capisce perché soggetti pubblici, capaci ed efficienti, non potrebbero operare e investire nel settore.
Evidente che il rischio di ideologizzare il confronto c’è tutto. Nella querelle tra pubblico e privato, Roberto Passino, presidente del Coviri (Comitato di vigilanza sulle risorse idriche) se la cava citando il leader cinese Deng Xiaping: "Non importa che i gatti siano bianchi o neri. L’importante è che mangino i topi". Eccesso di pragmatismo? Il fatto è che realtà tutte pubbliche che funzionano bene ce ne sono. E’ il caso di Metropolitana milanese che gestisce il servizio idrico del Comune di Milano, che ha un bilancio in pareggio, reinveste gli utili nella rete e ha perdite d’acqua di poco superiori al 10% (ricordiamo che la media italiana è quasi del 30%). "Obbligare a privatizzare anche laddove il servizio è svolto in maniera efficiente da società pubbliche è una imposizione inaccettabile" spiega il segretario di Adiconsum Paolo Landi.
Resta il fatto che, con le nuove norme, il meccanismo delle gare unito all’onerosità degli interventi di manutenzione della rete, spazzerà via tanti dei gestori attuali (che ricordiamo son circa 8.000), lasciando spazio solo a chi avrà (oltre ai requisiti giuridici) spalle finanziariamente assai robuste. Questo significa che, oltre e insieme alle ex municipalizzate nostrane, comunque percepite dai cittadine come sempre più lontane dai territori d’origine, spunteranno multinazionali come le francesi Veolia e Suez, pronte a investire i loro soldi, ma solo nella convinzione di poterci guadagnare. Serviranno dunque "cani da guardia" molto efficienti per salvaguardare l’interesse collettivo. Una specialità che in Italia non si è ancora ben affermata. In attesa di vedere se ricorsi e pronunciamenti potranno invertire il corso delle cose, si può ben citare l’esempio di Parigi dove il sindaco Delanoe ha deciso di revocare la licenze ai gestori privati della rete idrica, insoddisfatto del loro servizio e di tornare al pubblico. Una cosa che sembra convincere (in maniera bipartisan) anche tanti amministratori pubblici in Italia, preoccupati di perdere il rapporto con le loro comunità e coi loro territori. Vedremo come andrà a finire.

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